Gaeta / Sequestro Savina Caylyn, Verrecchia chiede il confronto con il pirata somalo arrestato

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GAETA – Pronto a partire subito per la Sicilia per effettuare una ricognizione personale di chi, giunto in Italia come clandestino nelle ultime settimane a bordo di un “barcone”, è considerato uno dei pirati che lo tennero in ostaggio, dall’8 febbraio al 21 dicembre 2011, sulla petroliera italiana “Savina Caylyn” nelle acque somale dell’Oceano Indiano. Antonio Verrecchia, marittimo di Gaeta di 68 anni, vuole offrire il suo personale contributo per fare piena luce su uno degli attacchi di pirateria più gravi degli ultimi decenni. Questa volontà l’ha esternata in una lettera che il legale di parte civile, l’avvocato Vincenzo Macari, ha inviato al sostituto procuratore della Repubblica di Roma Francesco Scavo Lombardo, il magistrato che l’antivigilia di Ferragosto ha chiesto ed ottenuto l’arresto – eseguito dai Ros dei Carabinieri e della Digos della capitale – di Mohamed Farah, il somalo di 24 anni che, fermato presso il Centro di permanenza per i rimpatri ‘Pian del Lago’ di Caltanissetta, dove aveva chiesto lo status di rifugiato all’Italia, è accusato di essere uno dei pirati che abbordarono al largo della Somalia e sequestrarono per 10 mesi la petroliera italiana di proprietà dell’armatore napoletano “Fratelli D’Amato”. Verrecchia ha chiesto di essere autorizzato ad effettuare una ricognizione personale di Farah, una possibilità che, prevista dagli articoli 213 e 214 del codice di procedura penale, potrebbe servire ad offrire alle indagini – prima chiuse e poi riaperte dalla Procura di Repubblica solo grazie alla tenacia della famiglia di Verrecchia – ulteriori ed importanti sviluppo e particolari. Uno su tutti: le modalità ed il ritardo del pagamento del riscatto di 11 milioni e mezzo di dollari ai sequestratori dopo 10 mesi di atroce e terribile prigionia. La famiglia Verrecchia inoltre sta pensando di coinvolgere, alla luce della riapertura delle indagini, la Corte europea dei diritti dell’uomo perché condanni lo stato italiano e, indirettamente, la società armatrice della “Savina Caylyn” a risarcire chi è stato davvero vittima di una forma bestiale di pirateria. Contro l’iniziale richiesta della Procura di Roma di chiedere l’archiviazione del fascicolo la famiglia Verrecchia nel 2015 aveva scritto al Gip Massimo Battistini di disporre “accertamenti suppletivi volti a dare un volto ed un nome all’assurda vicenda vissuta” di cui è stato protagonista il marittimo di Gaeta. E nell’occhio del ciclone finirono l’armatore ed i responsabili della compagnia di navigazione che, a dire della famiglia Verrecchia, “erano a conoscenza da mesi di quanto pericolose fossero le rotte percorse dalla Savina Caylin” a causa della presenza di pirati armati”. Altri interrogativi li pone, a tutt’oggi, l’avvocato Macari: “E’ interessante scoprire quali siano state le concrete circostanze della liberazione, ossia chi ha trattato con chi, nel mentre le condizioni degli ostaggi, anche dal punto di vista sanitario, degeneravano progressivamente. Altrettanto utile potrà essere, ai fini investigativi, scoprire se il riscatto sia stato pagato tempestivamente e ad iniziativa di chi, talché la liberazione, o se si è indugiato per le ragioni che si vorranno scoprire”. Di certo il direttore di macchina Antonio Verrecchia non è più tornato a navigare e nemmeno potrebbe più farlo perchè destinatario di un’interdizione emanata dalla Capitaneria di porto di Gaeta che l’ha definito ”inidoneo all’unico lavoro svolto in tutta la mia esistenza”. Verrechia aveva ricevuto un aiuto economico per i primi 36 mesi dopo la liberazione per finire, poi, in uno stato di prostrazione dopo essere stato vittima di continue pressioni psicologiche e torture fisiche in balìa dei pirati somali. Si tratta di elementi avvalorati da perizie che gli hanno riconosciuto un disturbo post traumatico da stress cronico. Verrecchia chiede, ora più che mai, giustizia. Non ha potuto mai digerire il contenuto dell’ufficio legale della sua ex società armatrice che considerava la sua una “……. malattia ricollegabile allo svolgimento dell’attività lavorativa…..”. Neanche si trattasse – conclude amareggiato l’avvocato Macari – di un’infiammazione dell’appendice…