Sperlonga / Annegò nella piscina del “Gran Hotel Virgilio”, continua il processo per la morte di Sara Basso

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SPERLONGA – Tutto come previsto. Una guerra di perizie ha incendiato mercoledì un’altra udienza del processo che si sta celebrando davanti il giudice monocratico del Tribunale di Latina Giovanni Valentini per la morte di Sara Basso, la morte della 13enne originaria di Supino ma residente a Morolo annegata il 12 luglio 2018 nella piscina del “Grand Hotel Virgilio” di Sperlonga dove stava trascorrendo una breve vacanza con i suoi genitori. Gli interventi dei periti di parte non hanno chiarito le ragioni per le quali ha perso la vita Sara, se per imperizia e negligenza o per una mera e sfortunata casualità. Hanno optato per la prima ipotesi i consulenti indicati dal sostituto Procuratore Valerio De Luca, i professori Remo Calzona e Gabriele Novembri, e quello nominato dalla parte civile rappresentata dagli avvocati Calogero Nobile e Francesca Minotti, il professor Massimo Minotti.

Sul banco degli imputati, dopo il rinvio a giudizio con l’ipotesi accusatoria di omicidio colposo in concorso del Gup del Tribunale di Latina Pierpaolo Bortone, ci sono ora Mauro Di Martino e Francesco Saverio Emini, rispettivamente di 44 e 71 anni, amministratore di fatto e amministratore legale della società proprietaria dell’albergo di Sperlonga teatro della tragedia, ed Ermanno Corpolongo, 85 anni di Itri, in qualità di costruttore della piscina.

Secondo l’accusa, formulata dal sostituto procuratore Valerio De Luca, la 13enne di Supino sarebbe stata risucchiata dal bocchettone di aspirazione della piscina non riuscendo più a risalire a galla a causa di una forza pari a 480 chilogrammi. Inutili purtroppo risultarono i soccorsi prestati a favore della bambina che, trasportata in eliambulanza al policlinico Gemelli di Roma, cessò di vivere alcune ore dopo. La Procura ha individuato due tipi di responsabilità che avrebbero provocato il decesso di Sara Basso.

Di Martino e il suocero Emini, entrambi difesi dagli avvocati Vincenzo Macari e Alfredo Zaza D’Aulisio, e Corpolongo, assistito dall’avvocato Massimo Signore, sono accusati di aver omesso di adottare nella gestione della piscina misure finalizzate a garantire il mantenimento delle condizioni di sicurezza, ma anche di aver omesso di prevedere la presenza degli assistenti bagnanti abilitati alla vigilanza, alle operazioni di salvataggio e di primo soccorso.

I periti dei tre imputati, il professor Marco Scarselli e l’ingegner Daniele Sparagna hanno cercato di smontare, sul piano tecnico ed idraulico, le conclusioni ipotizzate dalla Procura. I due consulenti della difesa hanno ricordato come il motore di ricambio dell’acqua fosse stato riattivato a distanza di quindici giorni dalla tragedia senza dare problemi. Anche il sopralluogo all’interno del box in cui è stato sistemato il motore non avrebbe accertato palesi irregolarità relativamente a quelle che vengono definite tutte le operazioni meccaniche di manovra, di attivazione e di regolamentazione del flusso dell’acqua. La tesi della Procura è essenzialmente una: era rotta la griglia sul fondo della piscina che avrebbe intrappolato, con un effetto “ventosa”, la povera Sara.

Chi si attendeva un confronto “all’americana” tra i consulenti delle varie parti in causa del processo è rimasto, dopo quattro ore, deluso. Il giudice monocratico ha preferito che i consulenti della Procura, della parte civile e delle tre difese intervenissero autonomamente con i rispettivi contro-interrogatori. Ciascuno è rimasto sulle sue posizioni, in sostanza.

Se ne saprà qualcosa di più il 6 giugno prossimo quando interverranno i medici legali di parte. Dovranno rispondere ad un unico quesito del Tribunale: Sara poteva essere salvata quando si immerse alle 17 del 12 luglio di quattro anni fa per fare un bagno nella piscina dell’albergo dove stava trascorrendo una breve vacanza con i suoi genitori? Come si ricorderà nella conclusione delle indagini preliminari era stata definitivamente stralciata, invece, la posizione del presunto manutentore dell’impianto, Nicolangelo Viola di Gaeta che, inizialmente difeso dall’avvocato Pasquale Di Gabriele, dimostrò l’assenza di un qualsivoglia contratto in base al quale avrebbe svolto quel ruolo nel luogo di questa immane tragedia.