Formia / Caso di malasanità legato al Covid-19 all’Ospedale “Dono Svizzero”, esposto all’Asl di Latina

Cronaca Formia Sanità

FORMIA – L’Asl di Latina invii i propri ispettori per verificare la corretta funzionalità ed operatività della tenda pre-triage che, installata nelle fasi iniziali della pandemia nella zona adiacente l’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale “Dono Svizzero” di Formia, è destinata ai potenziali pazienti Covid 19. La richiesta è contenuta in una esposto che una donna disabile di 66 anni di Gaeta, affetta dalla patologia rara conosciuta come la sindrome di Barterr e da una forma particolare di leucemia (per la quale è in cura presso il Policlinico Gemelli di Roma e sottoposta ad una cura a base di Oncocarbite) ha inviato per denunciare il calvario di cui è stata vittima lunedì sera.

Il suo medico di base per far fronte ai fortissimi dolori alla zona lombosacrale le consigliava di rivolgersi al “Dono Svizzero” a bordo di un’ambulanza del 118. Arrivava con una temperatura corporea di 38 gradi, tipica della patologia di cui soffre da anni. La donna informava il personale sanitario del suo noto quadro clinico, conosciuto da anni peraltro dallo centro trasfusionale dello stesso ospedale di Formia, comunicando che da anni effettua da svariati anni terapie infusive di svariati elettroliti (tra cui sodio e potassio) mediante infusione in porth a cath, recentemente rimosso in quanto guasto e sostituito, stante il periodo Covid 19, mediante l’apposizione di un accesso venoso centrale, comunemente chiamato “pic”. Ma è stata costretta – come da protocollo- a transitare all’interno della tenda pre-triage “per evitare possibili contagi”.

Avv. Luca Cupolino

L’avvocato Luca Cupolino ha denunciato nella lettera all’Asl “un vero e proprio spettacolo degradante e violativo di ogni diritto basilare del paziente”. La 66 anni, dopo un’attesa di 20 minuti nell’ambulanza “senza alcuna supervisione medica ed affetta da dolori lancinanti”,entrava nella tenda “assieme ad un paziente potenzialmente positivo al Covid 19 (al quale risultano essere stati fatti peraltro due tamponi nel corso della serata) ma interagiva con un solo infermiere che, “tentando di effettuare dei prelievi di sangue venoso, le ha rotto una vena sulla mano e l’altra sul braccio”.

“Dopo questo insuccesso, l’infermiere ha deciso semplicemente di prelevare il sangue mediante il Pic in bella vista- scrive l’avvocato Cupolino – peraltro omettendo sia di gettare la prima provetta di sangue, ma soprattutto rifiutandosi di effettuare il cd “lavaggio” a prelievo terminato, nonostante le rimostranze della donna. A questo punto l’infermiere confessava di non avere idea di come funzionasse un banale “pic”. La donna veniva inoltre sottoposta ad una verifica del ritmo cardiaco, costretta a spogliarsi, esposta con il petto ed il seno nudo, all’interno della tenda, di fronte all’altro paziente, uomo, presumibilmente Covid positivo; parimenti, quest’ultimo si è visto costretto ad urinare all’interno di un pappagallo, all’interno della tenda, aperta, davanti alla 66enne nonché a tutti gli antistanti. Effettuate tali attività, gli infermieri abbandonavano la tenda, scomparendo dentro il reparto di PS, e sia la paziente di Gaeta che l’altro paziente venivano lasciati da soli, senza alcuna supervisione medica, e ai parenti non veniva permesso neppure di sostare al di fuori della tenda”

Il calvario della donna si arricchiva anche di uno svenimento, dell’assenza di un’assistenza qualificata, del contatto con potenziali pazienti Covid ed il presunto ed irregolare comportamento di altri infermieri che facevano la spola tra la tenda ed il pronto soccorso “senza dispositivi individuali di protezione”. “Ma la circostanza più grave è che l’infermiera, dopo essere entrata svariate volte nella tenda e aver interagito con il materiale ivi presente (barelle, presumibilmente pazienti e i secchi dei rifiuti posti all’ingresso), entrava dentro il pronto soccorso senza togliersi il camice, i guanti, i copriscarpe e gli altri presidi sanitari, di fatto trasformandosi in possibile veicolo di trasmissione e contagio del Covid 19, dalla tenda a dentro il pronto soccorso, vanificando il senso stesso di aver allestito una struttura separata. L’unico apporto fornito dalla medesima è stato rappresentare, quale dimostrazione di ipocrisia, ai familiari della 66enne, che gli stessi non potevano sostare negli spazi antistanti la tenda, il tutto al fine di evitare possibili contagi che, però, evidentemente, possono essere trasmessi unicamente dai parenti dei pazienti e non dal personale medico, che gira liberamente per il pronto soccorso senza cambiare i dispositivi di protezione individuale. All’interno della tenda le informazioni di carattere sanitario sullo stato di salute dei pazienti venivano comunicate alla presenza di terzi, tanto che la donna apprendeva che l’altro paziente era stato sottoposto a due tamponi, nonché del relativo esito, che qui si ometterà di rappresentare per tutelare i diritti e la dignità dell’altro paziente. L’interno della tenda era peraltro infestato da insetti, probabilmente attirati dalla luce”.

Solo due ore di attesa alla donna di Gaeta veniva richiesta una Tac. I suoi familiari premevano che riguardasse la zona lombo-sacrale per verificare il motivo della sintomatologia dolorosa, ma il personale medico si sarebbe rifiutato – secondo quanto scrive l’avvocato Cupolino – specificando che questo esame era effettuato solo ed esclusivamente per verificare o escludere il Covid 19. L’esposto della donna 66 contiene altre presunte anomalie comportamentali e gestionali sul suo caso clinico. “La paziente ha richiesto al personale infermieristico di turno di essere aiutata ad andare in bagno per espletare le attività fisiologiche – ha osservato nell’esposto inviato via Pec dall’avvocato Cupolino al direttore generale dell’Asl Giorgio Casati – ma l’infermiere di turno si è rifiutato rappresentando di non essere tenuto a tali incombenze e di non avere alcun obbligo di occuparsi di lei, tanto che la paziente si è vista costretta ad attendere le ore 16 e chiedere al proprio marito, giunto in visita, di aiutarla”.

Da qui la richiesta dell’avvocato Cupolino all’Asl di “procedere alle opportune verifiche del caso, identificando il personale responsabile nonché i relativi superiori gerarchici, ed attuando tutte le iniziative, anche disciplinari, che si riterranno opportune”.