Formia / Vela: Azzurra a quarant’anni dall’America’s Cup, il libro di Andrea Vallicelli

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FORMIA – Formia è una città che dimentica facilmente o – peggio ancora – non ricorda eventi significativi che hanno costellato, impreziosendola, la sua storia, quella recente o quella più lontana nel tempo. Se la mancanza di memoria mette in discussione anche il futuro della sua identità, sociale e culturale, un’avvisaglia c’era stata lo scorso 18 maggio quando nessuno aveva osato allestire ed organizzare un evento per ricordare il 79° anniversario della liberazione dall’occupazione nazi fascista.

In questi giorni ricorre un altro anniversario che ha rappresentata un momento di svolta per lo sport italiano: il debutto dell’Italia velica nella più antica competizione sportiva che si ricordi, la Coppa delle “cento ghinee” o, più nota, America’s Cup di vela. Mentre il comune conferma al presidente del Coni Giovanni Malagò di essere pronto ad ospitare sul lungomare di Vindicio il centro federale della Federvela ma non muove un dito nei confronti dell’amministrazione comunale di Gaeta e della Regione Lazio perché venga rimosso il principale ostacolo (la mancata delocalizzazione degli impianti di itticoltura e di maricoltura) che impedisce la concretizzazione di questo progetto dalla fortissima valenza sportiva ed economica, ci ha pensato un architetto romano in un libro a ricordare cosa è successo prima e durante l’estate di 30 nelle acque americane di Newport.

Per la prima volta una barca rappresentava l’Italia nella più prestigiosa competizione velica al mondo e a disegnare quella bellissima barca fu il romano Andrea Vallicelli che nel libro presentato presso la Triennale di Milano ha ripercorso, sottolineandolo, il ruolo svolto dall’intera città di Formia per una sfida sportiva, quella dell’America’s Cup, che veniva affrontata con lo spirito di emulare quella calcistica dell’Italia di Enzo Bearzot di un anno prima ai mondiali di Spagna.

Lo skipper di Azzurra era un romagnolo, Cino Ricci, precettato da chi aveva creduto in questa prima volta dell’Italia all’America’s Cup: lo Yacht Club Costa Smeralda del presidente Karim Aga Khan, un certo Gianni Agnelli (che sulle barche ospitava anche il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy) ed un giovanissimo amministratone delegato della Cinzano, Luca Cordero di Montezemolo.

“Eravamo come scalatori di fronte a una parete inviolata” metteva le mani avanti Ricci nonostante l’insperato accesso alla semifinale della selezione sfidanti, per la prima volta targata “Louis Vuitton”. Vallicelli, nonostante i suoi 29 anni, era nel 1983 il più anziano componente di uno straordinario gruppo di lavoro di cui facevano parte la moglie Patrizia Ferri, Vittorio Mariani, Nicola Sironi, Alessandro Nazareth. La scelta di far disegnare Azzurra ad un gruppo di giovanissimi architetti romani arrivò dopo l’iniziale interessamento di un progettista italiano ma di origini dalmate.

Mario Tarabocchia prestava servizio presso lo studio “Sparkman & Stephens” di New York . Iniziarono alcune trattative con il disegnatore italo americano ma si arenarono per due motivi: le pretese economiche di Tarabocchia vennero considerate eccessive e poi perché Olin Stephens gli disse che fosse tornato in Italia per disegnare Azzurra non l’avrebbe più riassunto… E così che la scelta cadde su Vallicelli e compagni che, nonostante fossero laureati da poco, avevano già in curriculum cinque anni di successi con le barche d’altura Ior ed erano stati protagonisti all’Admiral’s Cup, un vero mondiale di vela in quegli anni, con “Brava” dell’armatore Pasquale Landolfi.

Vallicelli rivela: “Pasquale ha un merito nella sfida italiana di Azzurra. Prima di farsi da parte comprò la barca lepre Enterprise. Poi lasciò tutta la scena all’avvocato Agnelli e all’Aga Khan che furono una calamita per la grande imprenditoria italiana, che voleva entrare nel consorzio. Indicai Cino Ricci per formare l’equipaggio: era la persona più adatta per quel ruolo, poi il biondissimo timoniere (bello come un Gesù Cristo) Mauro Pelaschier che navigava da un paio d’anni su Brava”.

PERCHE’ AZZURRA

Nel libro Vallicelli rivela come nell’ottobre 1981 c’era un primo modello in scala del 12 metri italiano. “I nomi prescelti furono tre Smeralda, Colombus e Azzurra ma fu prescelto questo terzo perché evocava lo sport italiano senza l’importanza e la presunzione che avrebbe avuto l’altrettanto facile da ricordare…l’Italia”. E tutti capirono l’importanza, anche economica, di quello scafo varato presso il Cantier e Yacht Officine Pesaro (la bottiglia di spumante si ruppe al primo urto…) il 13 luglio 1982 – due giorni dopo il trionfo dell’Italia di Bearzot al Mundial spagnolo – alla presenza dell’avvocato Agnelli, dell’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e della principessa Salina, la moglie dell’Aga Khan. La Vallicelli sapeva che non poteva fallire. E così che per l’elaborazione della chiglia coinvolse il professor Salvetti dell’Università di Pisa, uno dei progettisti dei piani di coda ideati dall’Areitalia per la Boeing. E poi la coraggiosa scelta – imposta dai regolamenti rigidissimi dell’America’s Cup – di costruire Azzurra con alluminio interamente italiano. Con una sola deroga: l’albero, costruito negli Stati Uniti, e le vele, progettate e prefabbricate in Italia, sebbene la veleria “Nort Sails” fosse statunitense”.

LA PREPARAZIONE

Azzurra, dopo il varo, in compagnia di Entreprise – ricorda nel suo libro Andrea Vallicelli – si spostò a Marina di Ravenna, a casa di Cino Ricci. L’obiettivo con il burbero francese Laurent Cordelle era quello di allestire l’equipaggio. In oltre un anno vennero esaminati circa 120 velisti, alla fine ne rimasero trenta. Formia venne scelta per due ragioni: poteva disporre delle stesse condizioni meteo-marine dell’americana Newport e poi per la cultura del lavoro che incarnava grazie alla fame dell’allora scuola nazionale di atletica leggera “Bruno Zauli”.

Faceva un freddo cane il 3 gennaio 1983 quando una folla di curiosi – capitanata dall’allora sindaco di Formia Giulio Colella, dagli assessori Salvatore Iannucci e Ugo Rivera (quest’ultimo il migliore assessore allo sport che il Comune ha avuto a disposizione nel secondo dopoguerra prima di essere stato determinante capogruppo della Dc), dal Senatore Mario Costa, dal presidente dell’azienda di soggiorno e turismo Pasquale Gallinaro e dal suo vice Antonio Lutrario attese sul ponte Tallini la barca che da lì a qualche mese avrebbe rappresentato l’Italia dopo 130 anni di storia e 24 sfide all’America’s Cup di Vela. Fu spietata la concorrenza a Formia per ospitare questo gioiello ed Enterprise , lo scafo compagno di allenamento. E per farlo fu costruita in tempo da record – allora volere era potere – una banchina che si chiamava e si chiama tuttora Molo Azzurra. E mentre Azzurra ed Enterprise attraccavano faceva tappa a Formia del Raid di Natale in gomme Roma-Amalfi con l’incrociatore della Marina Militare Intrepido e la motonave della Caremar “Naiade” destinati ad ospitare a bordo centinaia e centinaia di formiani incuriositi. Era emozionato anche lo stesso sindaco Colella nel leggere un messaggio augurale dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini.

AZZURRA E LA CITTA’

Azzurra è rimasta a Formia sino al 24 aprile di quarant’anni fa centrando un obiettivo, il lavoro, che ha fatto scuola nello sport e nella società italiana al punto che Mauro Pellaschier finì sulla copertura di Uomo Vogue ed il quotidiano “Comunista” “Il Manifesto” per la prima volta dalla sua pubblicazione, spedendo a Formia un inviato speciale, aveva deciso di occuparsi di uno sport, la vela, poco seguito da “el pluebo unido”. L’equipaggio di Azzurra era composto da 11 elementi – ricorda Vallicelli – ma “poi c’era lo schore team”, la squadra di terra, che si occupava della barca quando tornava in porto e ogni sera la esaminava da cima a fondo per vedere se c’era anche la più piccola avaria. Questo team per due anni lavorò gratis, perché allora non c’era il professionismo di oggi: la Coppa America era un sogno per i qual tutti erano disposti al sacrificio”. Un numero su tutti: tra Marina di Ravenna l’equipaggio passò in mare novecento ore in mare, a provare e riprovare. Rispetto all’iper professionistica Coppa America di adesso “c’era più libertà di individuale” e capitava di vedere il giovedì mattina Pellaschier e compagni mescolarsi a tanti formiani che frequentavano il mercato settimanale del giovedì (che all’epoca si svolgeva in largo Paone) e fare la fila per prendere in cappuccino ed il cornetto nell’ex bar “La Perla” di Lello Bartolomeo.

La permanenza a Formia del team di Azzurra ha dimostrato che anche le imprese più impossibile nello sport possono diventare “possibili” e “quando Azzurra – ricorda il suo ‘designer’ – si dimostrò più veloce di Enterprise tirammo tutti un po’ un sospiro di sollievo”. E vorrei vedere. A Newport, a Rhode Island, Azzurra – con al seguito un gruppo di audaci giornalisti convinti ad andare in America da un grande capo ufficio stampa quale fu Cesare Pierleoni – vinse più di quanto si potesse immaginare. A piccoli passi si qualificò per le semifinali per l’America’s Cup superando i più quotati francesi e due sindacati australiani . Azzurra riuscì in una circo stanza a sconfiggere Australia II ma i sogni di gloria di un esuberante Luca Cordero di Montezemolo si infransero contro Victory, la barca del ricchissimo sindacato inglese finanziato dal 38enne Peter De Savary, in patria conosciuto come il “nuovo Lipton” per via dei suoi interessi per il petrolio ma sospettato a lungo per traffici meno limpidi, come il commercio internazionali di armi.

Nel suo libro Andrea Valliccelli ricorda come a Formia e nel resto d’Italia in quell’estate 1983 le bambine che venivano al mondo avevano un nome già pronto: Azzurra. Così come tante attività commerciali nel settore ittico, dei servizi, della ristorazione o semplici sale biliardo avevano assunto la denominazione di un 12 metri che se non si fosse ritirato contro gli inglesi di Victory 83 avrebbe potuto affrontare in finale Australia 2, di cui sicuramente era considerata anche più veloce.

Formia – secondo il disegnatore di Azzurra- ha dimostrato altro: se la Walt Disney production le ha regalato un video per aver ospitato la prima barca italiana partecipante all’America’s Cup, una ragione forse c’era. Ha ‘partorito” una della prime sfide sportive in Italia in grado di essere sostenuta da un consorzio piuttosto che da un singolo imprenditore. In un’epoca ancora priva dei social è stata capace, grazie ai risultati, di avvicinare il pubblico un nome facile… quello delle maglie della nazionale di calcio: “Fu un’esperienza umana irripetibile, direi – conclude Andrea Vallicelli – Nel consorzio, durante la preparazione e anche a bordo si respirava un’energia fantastica. La prima Azzurra fu un’esperienza garibaldina. Tutto quello che dovevamo affrontare era nuovo e fu uno sforzo enorme che affrontammo con grande piacere. Anche perché avevamo un entusiasmo pazzesco che ci faceva camminare a un palmo da terra. Il segreto del successo fu la bellezza. A distanza di un anno dalla vittoria ai mondiali di calcio grazie alla nostra sfida gli italiani, che amano il bello di cui sono attratti, erano davvero orgogliosi di essere tali”.

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