Castelforte / Intitolazione pinetina Rio Grande, Stefano Andreotti replica al Partito Democratico

Attualità Castelforte

CASTELFORTE – Tutto secondo copione. Ha provato una scia di polemiche e di veleni la decisione del gruppo consiliare e della segreteria politica del Pd di Castelforte di disertare l’intitolazione – avvenuta martedì mattina -. della pinetina di Rio Grande alla memoria del compianto presidente della Camera dei Deputati, Pietro Ingrao. Ora a scrivere e a rispondere per le rime al capogruppo consiliare del Pd ed ex sindaco di Castelforte Giancarlo Cardillo è….Stefano Andreotti. Proprio così. Il primogenito dello statista Dc e sette volte presidente del consiglio Giulio era giunto a Castelforte lo scorso 6 dicembre con la sorella Serena per presenziare all’intitolazione da parte della Giunta Pompeo della piazza antistante il palazzo municipale alla memoria del “Divin Giulio”. E anche in quella circostanza il Pd polemizzò apertamente con l’amministrazioine comunale castelfortese di aver intititolato per la prima volta in Italia un luogo pubblico ad un personaggio che “soltanto la prescrizione ha salvato dall’accusa di concorso esterno in partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso”. 

Stefano Andreotti definisce “imprecise e lacunose” le considerazioni fatte dal Pd castelfortese e dall’ex sindaco Cardillo sulla sentenza della Corte di Cassazione contro il processo promosso dalla Procura di Palermo contro il Senatore a vita Dc per concorso, esterno in associazione mafiosa. “C’è chi in questi anni ha voluto sostenere una propria tesi, difforme però da quanto risultante dagli atti – osserva il figlio dell’ex presidente del Consiglio – Chi davvero vuol conoscere la realtà e i processi che intorno a essa sono stati celebrati dovrebbe leggere con attenzione tutti gli atti (e se cita una sentenza come quella della Cassazione leggerla e studiarla realmente). E’ infatti la lettura completa delle carte che documenta in modo inconfutabile se e cosa l’accusa aveva ipotizzato e qual è stato l’effettivo esito dei processi.”

Il processo di primo grado si concluse per Andreotti con la formula dell’assoluzione perché il fatto non sussiste. Quello d’appello terminò con la formula dell’assoluzione che riteneva prescritto quanto avvenuto fino alla primavera del 1980 “(e non ‘almeno’ fino alla primavera del 1980 come nella nota riportato) e confermato quanto stabilito dalla prima sentenza per il periodo successivo con un riconoscimento ancora più marcato di quanto contenuto nella prima dei provvedimenti ‘di particolare fervore antimafia’ adottati da mio padre”.

Esiste però un terzo grado di giudizio, la Cassazione, che emanò la sentenza definitiva che ha messo la parola fine all’interminabile processo. La Suprema Corte, proprio in relazione alle due sentenze precedenti, quella del Tribunale e quella della Corte d’Appello, esplicitamente affermò: ’I giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse’, ma non rientra tra i compiti della Cassazione ‘operare una scelta tra le stesse’.  La sentenza della Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Palermo per i fatti successivi al 1980, “riconoscendo assoluta estraneità di nostro padre a Cosa Nostra. Quanto invece al periodo di tempo antecedente al 1980, coperto dalla prescrizione e rispetto al quale la Cassazione aveva limitati poteri di controllo, i giudici di legittimità, valutando le motivazioni della Corte d’Appello, non solo hanno sentito il dovere di precisare che la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi ‘è stata effettuata in base ad apprezzamenti ed interpretazioni che possono anche non essere condivise’, ma hanno addirittura aggiunto che agli apprezzamenti e alle interpretazioni della Corte d’Appello ‘sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica’. Richiamare  la sentenza della Cassazione come mera conferma della sentenza di Appello,  citando fra l’altro come avviene nella nota, parti della stessa che si limitano a riportare brani della seconda, non tiene evidentemente conto del contenuto e delle conclusioni ben diverse alle quali, come sopra citato, è pervenuta” .

Giulio Andreotti è morto all’età di novantaquattro anni e “l’ha fatto in modo sereno. Chi è stato vicino a lui, lo ha conosciuto ed ha avuto modo di accompagnarlo durante la sua lunga vita sa bene chi è stato nostro padre, a quali valori ha improntato la sua condotta e a quali comportamenti si è sempre attenuto. Nel suo testamento è scritto: Desidero ripetere con la serietà di un giuramento dinanzi a Dio, cui nulla può essere nascosto o manipolato, che io nulla ho mai avuto a che fare con la mafia (se non per combatterla con leggi o atti pubblici) o con la morte di Pecorelli, del generale Dalla Chiesa e di chiunque altro tra gli assassinati”.

Stefano Andreotti polemizza con il Pd di Castelforte difendendo, indirettamente, la scelta del sindaco Angelo Felice Pompeo di intitolare la pineta di Rio Grande al dirigente di Lenola del Pci: “Ricordo i rapporti di stima reciproca che mio padre ebbe con tanti esponenti del Partito Comunista, compreso naturalmente Pietro Ingrao. I rapporti intrattenuti con lui sono testimoniati da decine e decine di scritti, da ricordi e fotografie come quella scattata a casa di Ingrao a Lenola nell’agosto 1999”.

Stefano Andreotti ci ha inviato due delle tante lettere conservate “da mio padre nel suo archivio a dimostrazione della qualità della relazione che Ingrao aveva con questo terribile ‘malavitoso’. Mi auguro che finalmente dopo tanti decenni la storia basata su documenti prenda finalmente il posto di una cronaca fondata su preconcetti e luoghi comuni dei quali mi pare la nota del Pd non vada esente”.

Uno a uno.

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