Terracina / Affondamento paranza “Claudio Padre”, chiuse le indagini preliminari

Cronaca Terracina

TERRACINA – Poteva, forse, essere evitata la tragedia del “Claudio Padre”, la paranza di 12 metri della marineria di Terracina all’interno della cui cabina di guida il 14 dicembre 2018 fu trovato cadavere il comandante Rinaldo Di Lello, di 63 anni di Terracina. A questa considerazione è arrivato il sostituto procuratore della Repubblica di Latina Simona Gentile, il magistrato che, coordinando all’epoca dei fatti le indagini della Guardia Costiera di Terracina, ha chiuso ora le indagini preliminari nei confronti dell’unico indagato. Si tratta dell’armatore della motobarca, Antonio Di Pinto, di 25 anni, che il giorno della tragedia era al lavoro insieme al povero Rinaldo, rimasto prigioniero della cabina del peschereccio, poi affondato, ad un miglio e mezzo a largo del Salto di Fondi.

Secondo le conclusioni cui è giunto il magistrato titolare del fascicolo la tragedia sarebbe stata favorita da una sorta di imperizia, se il “Claudio Padre” non avesse lasciato, in considerazioni delle condizioni meteo marine poi gradualmente peggiorate nel corso di quella giornata, il porto di Terracina. Nella zona dell’affondamento, a poco meno di tre miglia dal porto della città, soffiava un forte vento di libeccio ed il mare era di forza cinque. Gli inquirenti, coordinati dal comandante della Guardia Costiera di Terracina Alessandro Poerio, non lo dissero esplicitamente ma un’onda anomala – tecnicamente “il mare a traverso” – avrebbe di lato contributo a far capovolgere l’imbarcazione che, al momento dell’incidente, non aveva assolutamente le reti in acqua. Di Pinto si salvò miracolosamente da quell’incidente: i sommozzatori del 2° Nucleo Operatori subacquei della Guardia Costiera di Napoli e numerosi pescatori della marineria terracinese lo trassero in salvo, nel mare in tempesta, colpito da un iniziale stato di ipotermia.

Assistito dagli avvocati Fabrizio Mercuri e Claudia Marzullo, Di Pinto rischia ora il processo con la grave imputazione di omicidio colposo e di alcune violazioni di legge previste dal Codice della Navigazione. Ed è probabile che prima della quasi già richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Latina possa chiedere di essere ascoltato, produrre memorie e soprattutto nominare un consulente un perito di parte – il Pm Gentile alle informative della Guardia Costiera ha allegato un fitta documentazione tecnica prodotta da uno studio di ingegneria navale di Udine – per dimostrare che la tragedia del 14 dicembre fu frutto solo della casualità. Di Pinto raccontò agli inquirenti le fasi della battuta di pesca iniziata nella più totale tranquillità la sera precedente e proseguita sino alle prime luci dell’alba quando però mutarono improvvisamente le condizioni meteo-marine. Da questo momento prese la decisione di rientrare a Terracina che si è interrotta ad un miglio e mezzo davanti il litorale del Salto di Fondi. Il vento ed un’onda avrebbe capovolto lateralmente la paranza: mentre il 25enne riuscì miracolosamente a salvarsi dopo una breve nuotata, il capobarca Di Lello rimase prigioniero all’interno della cabina del peschereccio inabissandosi a 34 metri di profondità.

Quanto è realmente accaduto l’hanno accertato, dunque, le due inchieste aperte: la prima penale – come detto – della Procura della Repubblica di Latina (inzialmente fu aperto un fascicolo contro ignoti), la seconda tecnico-amministrativa della stessa Guardia Costiera circa il rispetto delle norme di sicurezza a bordo del peschereccio. Lo sviluppo delle indagini è scaturito anche dall’esito dell’autopsia cui è sottoposto il cadavere di Di Lello che, recuperato e trasportato a bordo della motovedetta nel porto di Terracina, è stato prima riconosciuto in un clima di profondissimo dolore e strazio dai suoi familiari per poi essere trasferito presso l’obitorio dell’ospedale Santa Maria Goretti di Latina. Quella tragedia del mare costituì un altro duro colpo per la città di Terracina e per la sua storica e laboriosa marineria. L’affondamento del “Claudio Padre” ricordò tanti aspetti che l’hanno accomunata alla triste vicenda del “Rosinella”, il peschereccio che, partito dal Molo Azzurra di Formia , fece perdere le proprie tracce la notte del 19 aprile 2016 a sette miglia a largo del litorale di Baia Domizia con a bordo il comandante Giulio Oliviero e altri due membri dell’equipaggio i marittimi tunisini Khalipa e Saipeddine Sassi, padre e figlio di 60 e 25 anni. A quasi quattro dai fatti l’armatrice della paranza, la moglie del comandante Oliviero, la signora Rosa Imperato, non si capacita delle mancate risposte da parte del Tribunale di Cassino: il Gip non ha esaminato ancora la sua opposizione contro il decreto di archiviazione – emesso dal Pm Marina Marra – del procedimento contro ignoti con l’ipotesi di reato di disastro colposo. Se a Cassino è in corso ancora una “guerra” di perizie, a Latina in 13 mesi sono state concluse le indagini preliminari su un incidente analogo. Quella sollecitata dalla dottoressa Marra, effettuata dall’esperto di sicurezza della navigazione Giovanni Di Russo, ha lamentato una sorta di superficialità nella gestione e nella manutenzione del “Rosinella” nelle settimane che precedettero la tragedia.

Il peschereccio sarebbe affondato per la rottura improvvisa di uno dei due manicotti d’acciaio del sistema di raffreddamento del motore oggetto qualche giorno prima della tragedia di alcuni interventi di manutenzione presso un cantiere navale di Terracina. L’affondamento della paranza sarebbe avvenuto in pochissimi minuti, alle 21.40 del 19 aprile 2016 e con un piano di sicurezza “contraffatto”: l’Epirb – un sonar che si aziona a contatto con l’acqua – non sarebbe stato azionato e la zattera di salvataggio sarebbe stata trovata legata a bordo del natante, probabilmente per timore di furto nello stesso porto di Formia. La richiesta di opposizione della parte civile fa leva, invece, sul contenuto di una perizia di parte. E’ stata redatta dall’ingegnere navale militare Domenico Pisapia di Salerno e da quello meccanico Sebastiano Molaro: a loro dire è impossibile che affondi in pochi minuti una paranza, con una stazza di 28 tonnellate, per la sola rottura di un giunto d’acciaio. Quel tipo di peschereccio per affondare ha bisogno dalle quattro alle cinque ore e non di pochi minuti e, pertanto, ci sarebbe stato tempo e modo per i tre membri dell’equipaggio di dare l’allarme, di salire sulla zattera di salvataggio e, al limite, di gettarsi in mare. E invece i due marittimi tunisini furono trovati cadaveri a 65 metri di profondità ed il corpo del comandante “rinchiuso” in una botola, in avanzato stato di decomposizione, in occasione del recupero, dopo sei mesi, del “Rosinella”. Insomma tante ipotesi a fronte di una tragedia, di tre morti, che per la Procura di Cassino – almeno per il momento – non hanno responsabilità…

Saverio Forte