Sequestro Savina Caylin, Antonio Verrecchia presenta una memoria alla Procura di Roma

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GAETA – A distanza di sette anni dai fatti si ristabilisca l’intera verità su uno degli atti di pirateria più gravi e cruenti di sempre. E poi si identifichino tutti i protagonisti dell’intera vicenda, venga disposto il rinvio a giudizio del sequestratore somalo tratto in arresto lo scorso agosto in Sicilia e venga condannata la società armatrice “Fratelli D’Amato” di Napoli, per quanto di rispettiva competenza e responsabilità, per il mancato rispetto delle normative in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. Sono in sintesi, queste, le richieste contenute in una precisa memoria difensiva che Antonio Verrecchia, marittimo di 69 anni di Gaeta, ha inviato al sostituto Procuratore della Repubblica Rosario Aitala, il magistrato che, dopo il “disco verde” del Gip Massimo Battistini, ha riaperto le indagini sul sequestro, dall’8 febbraio al 21 dicembre 2011, della petroliera italiana “Savina Caylin”.

Su quella motonave era imbarcato proprio il direttore di macchina Antonio Varrecchia quando, nelle acque somale dell’Oceano Indiano, ci fu l’abbordaggio di un gruppo di pirati senza scrupoli. Uno di loro, Mohamed Farah, somalo di 25 anni, è stato arrestato lo scorso 14 agosto dai Ros dei Carabinieri e dalla Digos della capitale su ordine del sostituto procuratore della Repubblica di Roma Francesco Scavo Lombardo presso il centro di permanenza per i rimpatri ‘Pian del Lago’ di Caltanissetta, dove aveva chiesto lo status di rifugiato all’Italia. Vittima a bordo della “Savina Caylin” di indicibili violenze fisiche e psicologiche, Verrecchia ha subito un peggioramento del suo quadro clinico al punto che il Dipartimento Salute Mentale dell’Asl di Latina gli ha diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress cronico.

Il marittimo di Gaeta non sta bene ma ha comunque chiesto, attraverso il suo legale di parte civile, l’avvocato Vincenzo Macari, al nuovo magistrato titolare delle seconde indagini – le prime erano state archiviate da Piazzale Clodio – che intende offrire ora il suo personale contributo per fare piena luce su uno dei misteriosi degli attacchi di pirateria degli ultimi decenni. Innanzitutto Verrecchia ha chiesto ed ottenuto di partire per la Sicilia per effettuare un riconoscimento personale di Farah, giunto in Italia a bordo di un classico “barchino”, una possibilità che, prevista dagli articoli 213 e 214 del codice di procedura penale, potrebbe servire ad offrire alle nuove indagini – riaperte dalla Procura capitolina solo grazie alla tenacia della famiglia di Verrecchia – ulteriori ed importanti particolari. Uno su tutti: le modalità ed il ritardo del pagamento del riscatto di 11 milioni e mezzo di dollari ai sequestratori dopo 10 mesi di atroce e terribile prigionia.

La famiglia Verrecchia inoltre sta pensando di coinvolgere, alla luce della riapertura delle indagini, la Corte europea dei diritti dell’uomo perché condanni lo stato italiano e, indirettamente, la società armatrice della “Savina Caylin” a risarcire chi è stato davvero vittima di una formale bestiale di pirateria. Su quella petroliera maledetta Verrecchia si era imbarcato il 17 ottobre 201 a Singapore, con l’ordine impartito dalla compagnia di navigazione di raggiungere il Golfo Persico per caricare “blend crud oil” destinato ad Augusta, da lì poi diretti a Bashair e infine nuovamente a Singapore. Il marittimo di Gaeta in molte occasioni durante la sua prigionia subì violenza fisica, ad esempio, fu legato mani e piedi per più di un’ora accusato di nascondere il carburante richiesto dagli stessi pirati. E ancora violente percussioni con il manico di un’ascia, oltre ad essere stato violentemente minacciato dai sequestratori finanche del trancio delle dita e colpito dietro la schiena, nel mentre altri sparavano colpi di fucile in aria e uno dei pirati faceva gesto allo stesso Verrecchia di tagliargli la testa e di ucciderlo. Ma non fu drammaticamente tutto. L’uomo venne anche portato nel locale macchine da un pirata, il quale lo fece spogliare e con una pinza esercitò una forte pressione sulle unghie delle mani e su quelle del piede destro procurando forti dolori. Successivamente venne fatto distendere a terra e con un cavo d’acciaio -.

Si legge nella durissima memoria inviata alla Procura di Roma – venne colpito ripetutamente su tutto il corpo, oltre ad essere stato successivamente immerso più volte nell’acqua, fino a rasentare il concreto rischio di affogamento. Angherie, dunque, di ogni natura al punto che i pirati lo costrinsero anche a posizionarsi a gambe divaricate e braccia sollevate per circa un’ora nel piano coperta e nuovamente legato mani e piedi per lungo tempo. Questa atroce vicenda ha insite ancora troppe ombre che ha cercato di dilatare il 28 aprile 2015 quando il Gip del Tribunale di Roma Battistini, raccogliendo un mirato ricorso dell’avvocato Macari, ha permesso lo svolgimento di nuove indagini dopo che per la Procura “non c’era più nulla da chiarire”. A rincarare la dose, nei confronti dell’ex datore di lavoro di Verrecchia, la società armatrice “Fratelli D’Amato”, è proprio l’avvocato Macari, la quale – a suo giudizio – “non potrà essere ritenuta estranea al giudizio che occupa ed immune da responsabilità, quantomeno sotto il profilo previsto dal decreto legislativo 231/01 e dalle successive modifiche. Ben era nota quella parte del mondo per essere invasa da pirati capaci di ogni nefandezza, tanto che i Paesi occidentali solo in esito hanno disposto a tutela del naviglio commerciale ivi in transito anche la dislocazione delle rispettive navi militari, ma la compagnia armatrice, probabilmente per scelte di comodo connesse ai minori tempi di navigazione, ed a risparmio di carburante e di oneri di personale, ha deciso comunque di far navigare la “Salina Caylyn” in queste acque, sebbene infestate da pirati, capaci anche di azioni crudeli pur di depredare la nave del carico, o di monetizzare il carico, umano e di merci, sequestrato”.

Da qui un intricante ed inquietante interrogativo è stato posto al sostituto procuratore Rosario Aitala: “ Quale è stata la cautela, in ragione degli indifferibili ed ineludibili presidi di sicurezza per il personale dipendente di bordo, posta in essere dalla società di navigazione D’Amato? Dopo aver assicurato lo stipendio per i mesi di prigionia e le cure mediche di prima necessità per i primi 36 mesi successivi alla liberazione, in seguito la società armatrice ha abbandonato il povero Verrecchia al proprio destino e nulla è stato fatto neanche per il recupero delle sue condizioni psico-fisiche, lasciato, dunque, da solo in balìa del suo destino. Lo stesso, nel corso degli ultimi anni ha subito un progressivo e costante deterioramento della propria persona, al punto da subire un vero e proprio scadimento dell’”Io” e di rinnegare anche l’affetto dei propri cari (moglie e figli), senza che alcuno, compresi gli Organi di Previdenza (men che meno la società armatrice) avesse provveduto a ristorarlo delle gravissime angherie subite.”. Antonio Verrecchia e il suo legale avanzano altri dubbi che, secondo alcune indiscrezioni, sarebbero coperti da alcuni “omissis”. Insomma ci sarebbe lo zampino dei servizi segreti? Al momento la Procura di Roma sta ancora indagando ma relativamente alla liberazione “chi ha trattato con chi? Quale è stato l’oggetto della trattativa, durata oltre 10 mesi? Perché lo stesso ente o istituzione che ha sborsato la ingente somma oggetto dell’estorsione non ha provveduto anche e molto più legittimamente a risarcire anche l’equipaggio per quanto subito?”. Insomma si facci giustizia e chiarezza anche se sono rimaste inevase diverse lettere inviate alla Farnesina e alla compagnia di navigazione di Napoli. In più si aggiunge, per un ipotetico pronunciamento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, “una gravissima lacuna normativa derivante da una inesistente legislazione, al momento dei fatti, a tutela delle vittime di pirateria, considerata quale mero infortunio sul lavoro.” Dopo il danno, anche la beffa.

Saverio Forte