Cultura

Sud Pontino / “In viaggio con la Pietà”, il nuovo libro del giornalista vaticanista Orazio La Rocca

SUD PONTINO – Fa affidamento ad una prestigiosa prefazione di Barbara Jatta, la direttrice dei Musei Vaticani, uno documentatissimo libro che il collega di Itri Orazio La Rocca del quotidiano “La Repubblica” e del settimanale cattolico “Famiglia Cristiana” ha dedicato ad un evento di cui tra un mese ricorre il sessantesimo anniversario il criticato trasferimento negli Stati Uniti della Pietà michelangiolesca. Il libro, edito da San Paolo, s’intitola non a caso “In viaggio con la Pietà” e nelle sue 238 pagine La Rocca racconta o, meglio rievoca, quanto avvenne per il contestatissimo viaggio della scultura più importante e nota al mondo che per la prima volta, il 4 aprile 1964, lasciava il Vaticano per impreziosire lo stand della Santa Sede all’esposizione universale del 1964 che venne organizzata a New York.

Nella “grande mela” la Pietà di Michelangelo rimase per sei mesi, visitata da oltre 27 milioni di persone. Il viaggio avvenne via mare, dal porto di Napoli, e La Rocca rivela come questa trasferta, autorizzata già da Giovanni XXIII (scomparso nel 1963), venne confermata dal suo successore, da papa Paolo VI. Sotto la direzione tecnica del direttore dei lavori della Fabbrica di San Pietro , l’ingegner Vacchini, la Pietà venne fatta scivolare, grazie a tavole di legno di faggio saponate, dal suo piedistallo marmoreo in una cassa di legno. Ad eseguire l’operazione furono i fratelli Minguzzi con l’aiuto del personale sanpietrino. Le pareti laterali della cassa vennero rivestite di lastre di polistirene, il più comune polistirolo, considerato all’epoca un materiale “modernissimo”. Fu scelto dagli organizzatori americani, al posto del tradizionale sistema di imballaggio con i “baggioli”di legno. Poi grossi bidoni di polistirolo espanso vennero rovesciati all’interno della cassa ed innumerevoli minuscole sferette penetrarono in ogni interstizio della scultura. L’uso di questo materiale fu considerato all’epoca come un’ eccezionale novità! La cassa di legno a sua volta venne chiusa in un cassone metallico, ermetico ed inaffondabile, internamente trattato con sostanze isolanti ed ignifughe.

La cassa contenente “La Pietà” pesava sei tonnellate e sui due lati campeggiava l’inequivocabile scritta “PIETA’” e la sua foto, mentre lasciava la Basilica di San Pietro a bordo di un camion della ditta “Gondrand”, venne scattata dall’allora fotografo del Vaticano, Francesco Giordani, ed è attualmente conservata insieme alle altre nel fondo “Giordani”dell’Osservatore Romano. Questo momento fu davvero storico e La Rocca in questa rievocazione ricorda al lettore come quel giorno il lastricato di Piazza San Pietro fosse lucido da una leggera pioggia quando venne percorso dal mezzo della Gondrand, che trasportava, appunto, la cassa. La seguì trasportata da un altro camioncino, la statua del Buon Pastore, che l’accompagnò in questa avventura americana. A scortare le opere, un piccolo corteo di automobili al cui interno viaggiavano vari responsabili, vaticani ed americani, dell’operazione. Tutti i mezzi erano diretti a Napoli dove si sarebbero imbarcati – come detto- sulla nave Cristoforo Colombo.

Il viaggio nell’Atlantico durò otto giorni al termine il capolavoro del Buonarroti venne esposto nel Padiglione Vaticano del New York World’s  Fair e durante la sua permanenza fu ammirato da oltre 27 milioni di visitatori. La scultura tornò a Roma in basilica il 13 novembre 1965 e quattro giorni dopo l’Osservatore Romano pubblicò una foto di papa PaoloVI insieme al cardinale arcivescovo di New York Francis Spellman  insieme ad altre personalità, davanti alla Pietà  finalmente tornata al suo posto. Il Vaticano – e lo conferma La Rocca nel suo libro – potette tirare un sospiro di sollievio quando la scultura torna in basilica. Il severo Osservatore Romano in un breve trafiletto di commento descrisse la gioia del papa Montuni per il ritorno della “venerata e amata” scultura. Espresse quel resoconto giornalistico inoltre la considerazione fatta dal Pontefice, che quello sarebbe stato “l’unico viaggio” della Pietà, portato a termine grazie “alla preghiera e alla bravura delle persone che si erano assunte, con grande abnegazione, la grave responsabilità del suo trasporto”.

Nella sua sapiente prefazione la dottoressa Jatta naturalmente sottolinea importanza della scultura più nota e conosciuta di tutti i tempi – è visitata ogni giorno da circa 40.000 persone, 14 milioni in un anno- ne traccia la sua valenza artistica (“questo capolavoro assoluto dell’arte e della fede da oltre mezzo millennio continua a emozionare e a commuovere con la sua sublime bellezza chiunque l’osservi”) e a suo dire il libro del collega di Itri “rappresenta pertanto un ulteriore contributo alla conoscenza soffermandosi sugli ultimi sessant’anni di vita del gruppo marmoreo, che il giovanissimo Michelangelo – aveva appena 23 anni – realizzò per la cappella del re di Francia in San Pietro alla vigilia del giubileo del 1500”.

 Ad accompagnare la Pietà in quell’insolita trasferta, unica e irripetibile, fu il Buon Pastore del Museo Pio Cristiano: “Un “compagno di viaggio”, anch’esso preziosissimo e fragilissimo, ma silenzioso e discreto; un muto testimone dei Musei Vaticani che per l’intera durata dell’esposizione rimase in disparte e lontano dal clamore mediatico”. Una più attiva e clamorosa intromissione dei Musei Vaticani nella vita della Pietà si ebbe, purtroppo, qualche anno più tardi, quando la statua venne orribilmente danneggiata e mutilata dall’insano e sacrilego gesto di uno squilibrato: era il 21 maggio del 1972. Fu infatti Redig de Campos, allora direttore dei Musei, a guidare la non facile opera di risanamento assieme a Francesco Vacchini, dirigente dell’Ufficio tecnico della Fabbrica.

“Si tratta di in intervento entrato a pieno titolo nei libri di storia, un restauro che impose scelte non scontate, ma prese con intelligente determinazione dal direttore dei Musei, il quale, a chi si opponeva a un restauro di tipo “integrativo”, disse senza esitazione: «[…] La Pietà trae la sua forza espressiva in gran parte dalla purezza del marmo. È una statua così meravigliosamente rifinita che un semplice graffio sul viso disturba più della mancanza delle braccia sulla Venere di Milo” – ha concluso nella sua prefezione la dottoressa Jatta.

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