Cronaca

Terracina / Fallimento società “Circe”: sei commercialisti rinviati a giudizio

TERRACINA – Turbata libertà di scelta del contraente nell’ambito di procedure fallimentari, trasferimento fraudolento di valori e reimpiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita. Erano queste le ipotesi di reato per le quali sono approdate venerdì davanti il Gup del Tribunale di Latina Giorgia Castriota le controversie processuali riguardanti il fallimento della società “Circe” e l’acquisizione dell’hotel ‘Il Guscio’ di Terracina.

L’udienza preliminare, celebrata con il rito abbreviato, è terminata con l’assoluzione di Luigi Buttafuoco (difeso dagli avvocati Francesca Roccato e Claudio De Felice) e la condanna a due anni con la sospensione della pena per Roberto Manenti, assistito dall’avvocato Silvia Bonomo. I sostituti procuratori Giuseppe Bontempo e Claudio De Lazzaro hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio per i sei commercialisti della società “Circe”Alberto Palliccia, Aldo Manenti, Simone Manenti, Massimo Mastrogiacomo, l’avvocato Luca Pietrosanti e la moglie di quest’ultimo, Simona Vescovo – il cui processo inizierà il 4 ottobre 2023.

Le indagini, coordinate dalla Procura e condotte dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza del capoluogo pontino, si svilupparono nel 2020 dopo la denuncia presentata da un’imprenditrice successivamente alla dichiarazione di fallimento in proprio e di una società di persone alla stessa riconducibile relativa all’hotel ‘Il Guscio’ di Terracina. Le Fiamme Gialle accertarono numerose anomalie ed evidenti conflitti di interesse fra i professionisti a vario titolo intervenuti nelle fasi della procedura fallimentare nonché nelle altre procedure ad essa collegate.

In particolare è emersa una sorta di “accordo illecito”, finalizzato a sottostimare il patrimonio dell’imprenditrice, essenzialmente costituto da un unico immobile – posseduto per il tramite di una società di capitali – adibito ad albergo a Terracina, nei pressi del lungomare, per poi acquistarlo a prezzi notevolmente inferiori a quelli di mercato. Nella fase iniziale della procedura, l’immobile, valutato oltre 4 milioni di euro, era stato oggetto di pignoramento nel corso della misura esecutiva disposta dal Tribunale per essere poi venduto all’asta, andata, invece, deserta. Per la Procura le successive operazioni di liquidazioni ideate dai professionisti si concretizzarono nella liquidazione delle quote della società di capitali di proprietà della fallita (socia unica) e non più nella vendita diretta dell’immobile.

A tal fine sarebbe stato volutamente gonfiato il passivo della società per giungere ad un valore del patrimonio netto e, conseguentemente, delle quote, inferiore al reale, producendo così l’effetto di poter acquisire la società e la sua unica attività, ad un prezzo economicamente molto vantaggioso, in danno della curatela e dei creditori.

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