Cronaca

Rapina milionaria alla Bnl di Lecce, il Riesame conferma l’arresto del 44enne di Formia

FORMIA – Deve rimanere in carcere Luciano Romano, il 44 anni campano da anni residente a Formia arrestato martedì dagli agenti del commissariato con l’accusa di far parte della banda che effettuò una rapina milionaria nella notte dell’11 novembre 2018 ai danni di un’agenzia di Lecce della Banca Nazionale del Lavoro. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame del capoluogo salentino che ha confermato la validità dell’ordinanza di custodia cautelare che, emessa dal Gip del locale Tribunale Simona Panzera, era stata sollecitata dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco e notificata il 16 febbraio dagli agenti del commissariato di Polizia di Formia. Se nell’interrogatorio di garanzia l’uomo si era avvalso della facoltà di non rispondere, la sua difesa, rappresentata dall’avvocato Pasquale Di Gabriele, davanti i giudici del Tribunale della Libertà ha tentato di opporsi al ricco compendio probatorio prodotto dalla Procura di Lecce. A sua dire la prova regina riguardante il rinvenimento del materiale biologico – per lo più urina – nella caveau della banca salentina non riguarderebbe Romano ma il suo principale complice, Piero Fiore, di 46 anni, accusato di far parte , insieme a Salvatore Mazzotta, di 56 anni e a Marco Zecca, di 45 anni, di essersi introdotto all’interno del caveau della filiale di piazza Sant’Oronzo a Lecce della Bnl, svaligiando il contenuto delle cassette di sicurezza.

L’avvocato Di Gabriele ha chiesto l’annullamento o la modifica dell’ordinanza di custodia cautelare anche per diverse altre ragioni. Innanzitutto per l’assenza dell’attualità al provvedimento custodiale per una vicenda risalente a tre anni fa. La procura di Lecce avrebbe commesso un errore attribuendo la paternità di quell’urina a Romano definendolo un provato collaboratore di Fiore anche in relazione ad un analogo colpo compiuto nel 2008 ai danni di un istituto di credito di Biella, in Piemonte. A quella rapina partecipò senz’altro Romano, che fu condannato a ben sette anni di reclusione. Ma non partecipò a quel colpo Fiore. L’avvocato Di Gabriele, allegando la sentenza di condanna di Romano, ha voluto evidenziare come tra il suo assistito e Fiore non ci fosse nessun di rapporto di complicità. E l’ha anche dimostrato. Di fronte ad un bottino davvero milionario che i quattro avrebbero dovuto dividersi dopo il blitz perché la compagna di Romano avrebbe dovuto (in alcune intercettazioni telefoniche registrate dalla Procura di Lecce) chiedere un prestito di 400-500 euro?

Le indagini hanno accertato che i quattro rapinatori si introdussero nell’istituto di credito nel pomeriggio di venerdì prima della chiusura del fine settimana, nascondendosi inizialmente in un deposito secondario e poi entrando in azione nel momento della chiusura della banca. Lo fecero dopo aver messo fuori uso l’impianto di allarme e di videosorveglianza e i malviventi puntarono dritto alle cassette di sicurezza. Ne svuotarono 80 su un totale di 310 ma i rapinatori commisero una serie di superficialità: furono traditi da un’incredibile fretta, probabilmente causata dall’arrivo dei vigilantes allertati dalla direzione della banca per via del prolungato distacco di rete nell’agenzia. Si lasciarono dietro denaro e gioielli sparsi sul pavimento e un trolley con 90mila euro in contanti e tante impronte digitali. Le lasciarono su una sacca con gli attrezzi da scasso, su altre quattro vuote che sarebbero dovute servite per svuotare le restanti cassette di sicurezza e, infine, su un secchio pieno di urine che i quattro avrebbero utilizzato – come detto – durante la loro permanenza in banca in uno spazio delimitato con l’intento – l’hanno accertato le indagini – di evitare di innescare il sistema di allarme. Questo materiale è finito nei laboratori della polizia Scientifica di Roma. La verifica delle impronte digitali lasciate ma anche delle tracce biologiche come capelli, peli e frammenti di pelle è servita alla Procura di Lecce per chiedere l’arresto dei quattro.

Le indagini iniziarono con il sequestro e l’esame da parte della Polizia scientifica degli arnesi da scasso che, abbandonati dai ladri sul posto per darsi alla fuga, contenevano tracce di Dna . A fare il resto fu il contenuto degli impianti di videosorveglianza della zona di piazza Sant’Oronzo. Vennero individuati tre mezzi – un Doblò Fiat, una Peugeot 1007 e una Fiat Punto bianca – che proprio nei giorni precedenti il furto, percorsero più volte le strade di quel quartiere, sempre una dietro l’altra, “in fila indiana”: si trattava di vetture intestate a una società campana e a familiari di due degli arrestati del giorno di Carnevale, Fiore e Romano, entrambi risultati poi pregiudicati, sempre per furto. Gli inquirenti indagarono monitorando i profili social dei malviventi. Alcuni rispondevano a quello di persone con ottime conoscenze in fatto di allarmi. Ma i banditi come riuscirono ad eludere allarmi, porte blindate, accessi regolati a orario? Secondo la pm Vallefuoco uno o più malviventi il venerdì, prima dell’orario di chiusura dell’agenzia, era riuscito ad aver accesso all’area caveau e a rimanervi chiusi all’interno, proprio nell’area preziosi. Ad avvalorare questa ipotesi la presenza, all’interno del caveau, di un armadio metallico, quasi vuoto e abbastanza grande da contenere all’interno una persona di media altezza. La difesa di Romano ha preannunciato ricorso in Cassazione anche per una presunta eccezione procedurale. Il magistrato titolare delle indagini è intervenuta nelle battute conclusive della discussione del ricorso quando abitualmente il rappresentante della pubblica accusa espone i suoi elementi probatori nelle fasi iniziali del procedimento.

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